L’uomo che volò oltre se stesso. La vita è un fil rouge molto ingarbugliato
Giuseppe Manfridi e Claudio Boccaccini riportano in scena un’antologia di rimandi a luoghi e tempi (reali e non) al limite del confusionario
È una storia bizzarra a introdurci in quello che è un percorso fatto di numeri, coincidenze, incroci letterari, e che è anche una sorta di “ricerca di rime” tra fatti storici.
L’uomo che volò oltre se stesso, riproposto sul palcoscenico del Teatro Marconi di Roma lo scorso 23 luglio (dopo un debutto datato 2009 all’Argentina), con Claudio Boccaccini a dirigere Giuseppe Manfridi, fa parte dell’ormai consueto e sempre interessante festival “Marconi estate”.
Giuseppe Manfridi comincia dal racconto Wakefield di Nathaniel Hawthorne (lo scrittore più noto per La lettera scarlatta), il quale vede protagonista un londinese che, un venerdì sera come tanti, esce di casa salutando la moglie per prendere domicilio dall’altra parte della strada.
Sembra un’idea momentanea, qualcosa che scaturisce dal desiderio di osservare da lontano la propria dimora, le proprie finestre, la propria consorte e, in definitiva, la propria vita: e invece il signor Wakefield rimane nel nuovo appartamento per ben vent’anni, salvo poi riattraversare la strada un altro venerdì sera e, usando la chiave che aveva conservato pressoché casualmente, rientrare nel suo vecchio alloggio, salutare la donna che ormai lo riteneva morto e riappropriarsi della sua precedente esistenza come nulla fosse.
Molti degli elementi di questa vicenda (che è stata ispirata da un fatto di cronaca) si mescolano – quasi fossero le tessere di un puzzle – per poi tornare a comporre un’altra serie di eventi all’apparenza slegati tra loro, pur avendo invece un comun denominatore: è ciò che Manfridi definisce “devianza”, ovvero un momento particolare della vita, di quella di tutti, in cui si imbocca la strada sbagliata pur credendola quella giusta o, forse, l’istante nel quale si decide che un percorso nuovo, nella sua misteriosa originalità, è più affascinante di quello noto e consolidato nel quale ci troviamo da tempo.
Il vendicativo Amleto shakespeariano, ad esempio, per mettere alle strette gli assassini del padre, inscena notoriamente uno spettacolo teatrale in cui viene mostrato il delitto stesso, così da saggiare le reazioni dei principali sospettati e poter essere certo della loro colpevolezza.
Ma nel 1887 Jules Laforgue, poeta morto molto giovane, ne Le moralità leggendarie ci presenta un Amleto che sì, scrive il suo testo teatrale, ma nel farlo si rende conto di come sia molto meglio essere un drammaturgo che un re e, pertanto, devia da quello che sembra essere il suo destino per abbracciarne uno del tutto imprevisto.
Questo è un concetto che vale anche nei fatti più minuti i quali, come sappiamo, possono nascondere sviluppi inattesi. Un po’ come accade allo scrittore Robert Walser che un bel giorno, seduto a un ristorante, prende a leggere una novella di Gottfried Keller solo per non essere troppo plateale, sfrontato, nel suo gioco di sguardi con un’attraente donna adocchiata pochi tavoli più in là. Salvo poi ritrovarsi totalmente immerso nella narrazione, che scopre essere appassionante, e dimenticarsi della signora che, nel frattempo (e probabilmente oltraggiata), ha deciso di andarsene svanendo per sempre dalla sua vita. Senza naturalmente citare tutte le combinazioni e i rimandi scovati da Manfridi, anche per non guastare il piacere della scoperta ai futuri spettatori, eccoci arrivare all’episodio chiave, quello che ha per protagonista Bob Beamon, altro nome purtroppo poco noto al grande pubblico ma che, in realtà, è il protagonista di una grande impresa sportiva: il record del salto in lungo stabilito nell’ottobre del 1968 alle Olimpiadi di Città del Messico.
Un vero e proprio volo di 8,90 metri. Una distanza pazzesca tanto che, per rendere tangibile l’incredibile misura di cui si parla, a terra fra le poltrone è ben visibile una lunga striscia che quegli otto metri e novanta centimetri ce li mette dritti sotto gli occhi. Lo stesso atleta americano, che fino ad allora non aveva affatto brillato nella competizione, si trova a scrivere anni dopo, nella sua autobiografia, che quel salto gli aveva consentito di osservarsi da fuori, esattamente quel che si era ritrovato a fare Wakefield dall’altro lato della strada.
Si chiude il cerchio dunque, ma non sveliamo le ultime chicche, le ultime tessere che Manfridi si riserva per il finale e in cui fanno capolino anche una tragedia e una celebre giornalista italiana.
Giuseppe Manfridi, come sempre, si avvale di un’interpretazione accattivante e una sapiente capacità di coinvolgere il pubblico, utilizzando al meglio le sue abilità di vero e proprio narratore. Drammaturgo, romanziere e sceneggiatore, la sua scrittura sa veicolare in modo apparentemente semplice e diretto concetti sofisticati, supportati da una evidente preparazione letteraria ed intellettuale.
È un piacere ascoltarlo anche quando, come in questo caso, il filo conduttore è ingarbugliato, volutamente non lineare.
Gli elementi, le non-coincidenze, quelle che egli definisce, come detto, tessere di un puzzle (chi scrive li ha immaginati anche come mattoncini Lego dai molteplici utilizzi) si ritrovano così a comparire in episodi molto lontani gli uni dagli altri, talvolta reali, talvolta usciti dalle pagine di un libro. Tanto che, a dirla tutta, queste somiglianze forse non sempre sorprendono e, anzi, hanno più l’aria di essere forzatamente messe assieme pur di permettere all’autore di raccontarci storie che lo affascinano e che, in un certo qual modo, ci spingono a credere di poter fare tutti davvero quel salto, non solo di sognarlo. Deviare, abbandonare la nostra vita per un po’ di tempo. Volare.
Mettete pure via il taccuino e la penna dove vi viene suggerito di prendere appunti, perché in questo caos non vi serviranno: la cosa migliore è assaporare questa antologia di fatti, seppur confusionaria, e farsi condurre fino alla palpitante conclusione. D’altra parte, come viene ammesso da Manfridi in un passaggio, lo sport è qualcosa che magnetizza il suo immaginario, tangibile riprova del desiderio dell’uomo di mettersi alla prova, di migliorarsi e superarsi costantemente.
E, non a caso, il fulcro emozionale dello spettacolo, cui allude il titolo stesso, sono proprio quei sette secondi impiegati da Beamon per fare la storia dell’atletica leggera, raccontati con tale passione e trasporto che sembra di averlo lì davanti a noi, quel ragazzone afroamericano, mentre spicca il salto di otto metri e novanta centimetri. E tanto è vivida la descrizione che le immagini di quell’impresa atletica abbiamo l’impressione di averle già viste chissà quante volte.
Giungere su quella pista di Città del Messico in modo così funambolico, in definitiva, può non essere agevole per tutti e rischia perfino di confondere più di uno spettatore che, a metà del monologo, potrebbe forse chiedersi qual è la direzione in cui si sta andando.
Gli applausi convinti della platea, ad ogni modo, indicano che la fiducia in Giuseppe Manfridi è stata ancora una volta ben riposta.
L’UOMO CHE VOLÒ OLTRE SE STESSO
Regia: Claudio Boccaccini
Drammaturgia: Giuseppe Manfridi
Installazione scenica di Antonella Rebecchini
con: Giuseppe Manfridi
Teatro Marconi
Viale Guglielmo Marconi 698/E
Info e Prenotazioni Biglietteria 06 594 3554 – info@teatromarconi.it
teatromarconi.it
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