Tecniche d’evasione: espressioni nate dalla negazione della libertà

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Strategie sovversive e derisione del potere nell’avanguardia ungherese degli anni Sessanta e Settanta. Fino al 6 gennaio al Palazzo delle Esposizioni di Roma

Ci sono espressioni e intenzioni artistiche il cui valore non è solo intrinseco ma strettamente correlato al luogo e al momento storico in cui si sviluppano: un esempio forte e molto significativo è certamente quello offerto dalla mostra Tecniche d’evasione, visitabile fino al 6 gennaio al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Siamo nella cosiddetta Repubblica Popolare D’Ungheria tra gli anni Sessanta e Settanta: di fatto un regime dittatoriale comunista che, come ogni totalitarismo, guarda con sospetto qualsiasi cosa si distingua dalla massa. In questo scenario basta pochissimo per farlo: persino essere malinconico, perché chi non è felice di fatto critica lo Stato attraverso il proprio sentire. L’adesione dev’essere entusiasta, non c’è spazio per il pensiero critico: essere patriottici è un dovere, dunque ogni forma di dissenso – anche minima – può essere considerata una minaccia per l’ordine pubblico. 

Bálint Szombathy, Lenin in Budapest, 1972-2010

È all’interno di un panorama del genere, anzi proprio per questo, che fioriscono momenti d’arte poeticamente estemporanei, pericolosamente indomiti, commoventemente gratuiti da parte di un gruppo di artisti che non potrà ambire che alla clandestinità. Le armi sono le più disparate: rappresentarsi come idiota, sciocco, alienato; concedersi il lusso di un gesto quotidiano ma proibito, se sei donna addirittura mostrare un sorriso nel tentativo di prendere le distanze da ciò che una società repressiva e patriarcale si aspetta da te; spedire una lettera a un amico che vive oltre la cortina di ferro, il cui contenuto innocente passa l’ispezione della censura perché non è lì la sfida ma nell’attraversare il confine, magari con incollato un francobollo ironicamente capovolto.
Gesti semplici eppure eloquenti, quali lo scrivere con un gessetto o sopra la neve, sapendo che sarà la Natura a prendersi la briga di occultare la protesta e cancellarne le tracce. O più clamorosi, come portare in giro per le strade di Budapest un’immagine di Lenin: l’obiettivo sotteso è mostrare metaforicamente ai potenti la vita della gente qualunque ma, in caso di fermo, non si è altro che un manifestante un po’ troppo zelante. 

Tibor Hajas, To the streets with your message I. (A letter to my friend in Paris), 1975, Ludwig Múzeum, Budapest

La mostra, ospitata all’interno del Palazzo delle Esposizioni, si articola in sei sezioni più una sala introduttiva: una volta assorbita l’atmosfera si inizia a comprendere cosa si intende con l’affermazione “Ogni sistema di potere garantisce un numero infinito di cui essere felici e grati” unita a “Credere di essere liberi è il grande trucco del potere. Tutte le libertà irrilevanti sono garantite, nessuna esclusa”. 
Le opere presentate all’interno delle varie stanze danno a chi le osserva l’impressione di respirare un clima di paranoia via via maggiore, dove ogni gesto può essere mal interpretato o volutamente frainteso. Su tutto impera un’ambivalenza di fondo: l’urgenza di esser visto da parte di chi ha creato queste forme di protesta unita all’assoluta necessità di discrezione. Ma c’è chi ha il coraggio di rompere questo delicatissimo equilibrio: come Katalin Ladik che fa suo un gesto tipicamente maschile come il radersi la barba. 

Katalin Ladik, The screaming hole, 1979

O Judit Kele che, attraverso una performance, si sostituisce a un’opera d’arte prestata dal Museo of Fine Arts di Budapest. Sperimentando sulla propria pelle come è libera di fare ciò che vuole ma unicamente all’interno del cordone di sicurezza che le è stato assegnato. E che, inevitabilmente, si rivela invalicabile limite e forma di controllo. 

Judit Kele, I am a work of art, 1979 – 1984, Ludwig Museum – Museum of Contemporary Art

In un orizzonte così ristretto di possibilità bisogna acuire infinitamente la propria sensibilità e rintracciare gli strumenti con cui dire ciò che non è permesso: così i ciottoli divengono sinonimo di rivolta, tanto che per un certo periodo sarà persino vietato esporli. Allora non resta che impugnare falce e martello, come fa Sándor Pinczehelyi: tecnicamente sta celebrando i più noti simboli del Comunismo. Ma che si tratti di una esaltazione o di una presa in giro, la risposta è negli occhi di chi guarda. È anche così che Gábor Attalai, András Baranyay, László Beke, Gabor Bódy, Tibor Csiky, Orsolya Drozdik, Ferenc Ficzek, György Galántai, István Gellér B., Gyula Gulyás, Tibor Hajas, László Haris, Károly Halász, Zsigmond Károlyi, Judit Kele, Katalin Ladik, László Lakner, Dóra Maurer, Marcel Odenbach, Gyula Pauer, Sándor Pinczehelyi, Tamás St. Auby (Szentjóby), Kálmán Szijártó, Lenke Szilágyi, Bálint Szombathy, Endre Tót – è importante citarli tutti già solo per il coraggio che li ha sostenuti in quegli anni difficilissimi – hanno in qualche modo sconfitto quel nemico ubiquo chiamato dittatura. 

Tecniche d’evasione. Strategie sovversive e derisione del potere nell’avanguardia ungherese degli anni ’60 e ’70 

Palazzo delle Esposizioni 

via Nazionale, 194 – Roma

Orari
domenica, martedì, mercoledì e giovedì: dalle 10.00 alle 20.00; venerdì e sabato: dalle 10.00 alle 22.30; lunedì chiuso.

Biglietti

Intero € 6,00; ridotto € 4,00; ragazzi dai 7 ai 18 anni € 4,00; ingresso gratuito per i bambini fino a 6 anni; biglietto Open € 9,50 .

Info e contatti: www.palazzoesposizioni.it