Solitudini inviolabili. Pino Genovese tra arte, natura e interiorità

La mostra dell’artista romano allo spazio Sferocromia, fino al 10 maggio. Disegni, sculture, fotografie, vernici e molto altro, in una personale intorno a luoghi arcaici, maschere tribali e ricerca intima
Pino Genovese è un artista eclettico, capace di dare molte forme a quella che sembra essere una insopprimibile spinta creativa.
Il suo sentire, il suo animo attento alle forze ancestrali della natura, si riversano in disegni, sculture, fotografie e performance audiovisive, tutte legate dal comune denominatore della fascinazione per quanto c’è di ancora arcaico in questo mondo sempre più antropizzato.
Uno sguardo a tratti mistico su deserti, laghi, orizzonti marini o ancora suggestioni della fantasia in grado di immaginare scenari immateriali eppure plausibili per chiunque osservi i suoi lavori.
Nato a Roma nel 1953, figlio dello scultore Rocco Genovese, si diploma come designer nella Capitale, all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche, formandosi poi attraverso numerose esperienze nel campo della grafica, delle arti visive e anche grazie a un importante capitolo attoriale di collaborazione alle scenografie e alla grafica vissuto con la compagnia teatrale “La zattera di Babele”.

Per restituirci la complessità della sua carriera artistica è stata inaugurata a Roma lo scorso 4 aprile la mostra Solitudini inviolabili – paesaggio e segno in Pino Genovese, curata da Eugenia Querci e visitabile su appuntamento fino al prossimo 10 maggio presso lo spazio Sferocromia di Via Ippolito Pindemonte 30b.
Ammirando il consistente numero di opere presenti nella rassegno, partendo da alcuni dei disegni eseguiti fin dal 1990, fino a giungere alle creazioni più recenti, abbiamo potuto incontrare lo stesso Genovese che ci ha gentilmente concesso una rapida intervista.
Pino Genovese, in Solitudini inviolabili ci sono disegni a penna e a china, vernice e colori acrilici, sculture, fotografie e video proiettati sulle pareti. Perché queste realizzazioni così variegate? Ci sono dei periodi in cui si sente più vicino a una disciplina piuttosto che a un’altra?
Questo dipende dalle esperienze che ho avuto. Il disegno, prima di tutto, è partito dai suggerimenti di mio padre e da un mio interesse giovanile per il fumetto (mezzo comunicativo importante nella mia generazione). Oggi, crescendo, si trasformato in un segno più rapido.
Anche la fotografia è un mezzo per riportare visioni, e fa parte di una ricerca per raccontare quello che per me ha un particolare valore. Ma lo uso soprattutto come documentazione.
Il video, che uso di rado e che affido ad altri per riprendere i miei personaggi in azione, evidenzia forse meglio di ogni cosa il racconto realistico di quello che potrebbe essere una realtà collegata con una interiorità.

Nelle sue opere si nota un forte rapporto con la natura, il fascino per paesaggi arcaici, brulli ed essenziali. Da dove nasce questa attrazione per i luoghi quasi primordiali?
Chissà veramente cosa rappresentano questi paesaggi arcaici e desolati. I riferimenti possono essere tanti. Ad esempio, mi appassiona molto l’arte surreale, che è legata sempre a una ricerca interiore. Poi l’intento è ricreare luoghi dove si possa ricominciare da capo, dove la terra è incognita, per comprendere e scoprire la vita senza che ci sia stato insegnato.
Ancora mi ispiro o interpreto paesaggi rocciosi della zona del Trapanese, terre dove sono nati mio padre e mio nonno e che vivo interiormente con intensità.
C’è, a volte, anche il mare e il paesaggio che vivo quotidianamente nella mia zona, Lavinio, Lido dei Pini, Sabaudia, dove anche sono nate alcune delle mie installazioni.

Nelle sue opere notiamo una spiccata tendenza al rapporto con soggetti essenziali, la cui forza risiede nella loro semplicità di apparire; ed è possibile ritrovare questa immediatezza anche in rappresentazioni che diventano astratte. Ci sono momenti che la colpiscono particolarmente, tanto da spingerla a creare (o ricreare) le emozioni che prova? O l’essenzialità di alcune opere sono frutto di un lavoro interiore più elaborato?
Bisogna andare al dunque per avere un risultato chiaro e forte, secondo me. Molte cose sono frutto di un lavoro di introspezione e riflessione. Mi capita di essere colpito e di agire con immediatezza; altre volte ho bisogno di elaborare di più le cose. Non sempre tutto arriva in modo così facile. Lo spazio, il luogo, si deve sentire e, talvolta, per riconoscerlo c’è bisogno di più tempo, sentire di farne parte.
Lei si è cimentato anche nella realizzazione di bellissime maschere di impronta tribale con un richiamo ad elementi ancestrali. Cosa rappresenta secondo lei la maschera nella sua arte?
Parlando di rapporto con la natura la maschera è in relazione con la scoperta del sé, l’individuazione di chi siamo, il rapporto con la nostra indole di animali. E più si avvicina a una visione ancestrale, più è possibile che sia pura, non contaminata da conoscenze razionali.
La maschera trasforma non solo esteriormente ma anche interiormente. Queste sculture antropomorfe sono nate da una passione per l’arte africana e oceanica e da alcuni viaggi in luoghi dove ancora esiste una forte sacralità.

Il suo rapporto con la natura riguarda anche l’utilizzo del legno (rigorosamente di recupero) con cui realizza primitivi, affascinanti sepolcri (o rifugi). È questo il materiale con cui preferisce lavorare? Cosa rappresenta il sepolcro e che rapporto ha con l’idea della morte?
Generalmente le chiamo sepolture più che sepolcro, perché la sepoltura è anche l’atto di compiere questo rituale e si può ripetere nel tempo. Ed è una architettura primaria, gestuale, senza progetto: può essere immediata e nascere nel momento di una necessità di protezione, di rifugio.
Le mie “costruzioni” nascono direttamente in natura e si sostengono tramite spinte autoportanti senza l’aiuto di mezzi tecnici o altro. Il legno più che la pietra favorisce il lavoro in quanto più manovrabile, esteticamente massiccio. La pietra pesa molto. Tuttavia, utilizzo anche altri materiali recuperati in natura come cortecce, alghe secche, rami.
Nel lavorare in natura, all’aperto, e quindi a contatto con l’universo, oltre al rapporto con la vita c’è anche quello con la morte: uno dei misteri della nostra esistenza e che spesso temiamo. Quindi, il riparo esiste anche per proteggerci dall’ignoto, per unirci alla natura forse in maniera più serena e consolatrice del distacco.
SOLITUDINI INVIOLABILI
Paesaggio e segno in Pino Genovese
A cura di Eugenia Querci
Mostra visitabile, su appuntamento, dal 5 aprile al 10 maggio 2025
Per appuntamenti: opera.mostre@gmail.com
Sferocromia
via Ippolito Pindemonte 30b, Roma