Lo zoo di vetro. Ridete, pagliacci!

Il dramma familiare di Tennessee Williams nella versione clownesca di Leonardo Lidi, tra egoismi, riscatti e abbandoni personali

È una versione bizzarra e grottesca, quella pensata da Leonardo Lidi, che adatta e dirige lo Zoo di vetro di Tennessee Williams – con traduzione di Gerardo Guerrieri – immergendo l’intero spazio scenico in atmosfere clownesche. Ed è una realtà, quella raccontata, volutamente e dichiaratamente fittizia. 

Visti al torinese Teatro Astra (le prossime repliche saranno il 26 novembre al Teatro Openjobmetis di Varese e il 28 al Teatro Comunale di Russi), i tre protagonisti sono veri e propri pagliacci. La madre Amanda e i due figli Laura e Tom, a cui si aggiunge prima una muta e immobile figura paterna (fuggita tempo fa abbandonando la famiglia), poi l’amico Jim, sono caricature col cerone in faccia, il naso rosso e le scarpe enormi. Sono personaggi eccentrici che passano dall’ironia e dall’euforia estrema alla sofferenza privata della mancanza, dell’ambizione del riscatto, della necessità di redenzione. Sono fantocci tanto finti quanto incredibilmente umani.

“Lo zoo di vetro”. Foto Masiar Pasquali

Vivono in una casa tutta rosa e senza pareti – le scene si devono a Nicolas Bovey -, circondata da innumerevoli “gocce” di polistirolo azzurro, in un passato anni Trenta definito solo dalla proiezione di un animato “Mickey Mouse. The Haunted House” dell’epoca. E vivono un triangolo familiare in relazione costante, dove la madre è onnipresente – instancabile Mariangela Granelli – con la sua preoccupazione per le sorti della figlia zoppa, patologicamente introversa e solitaria, e per il figlio sì lavoratore – almeno c’è chi paga le bollette, forse -, ma anche assiduo frequentatore notturno di cinema, il che implica sospette e seriali sortite al bar.

“Lo zoo di vetro”. Foto Masiar Pasquali

Sono tre individualità – tre “maschere” – che celano nell’apprensione per l’altro, nelle buone intenzioni, nella ricerca di consenso, un focolare d’intolleranza reciproca, di inadeguatezza, di claustrofobia sociale. Si noti il bel passaggio di scontro madre-figlio dove le voci e le parole dei due si sovrappongono in una sorta di esercizio di stile che conduce verso alti e corrisposti toni accusatori. Ed è qui, nel rapporto con l’altro, che ognuno di loro rivela il proprio ego. C’è quello di Tom (delicato e incisivo Tindaro Granata) che, per compiacere la madre e aiutare la sorella a conoscere pretendenti, invita l’amico e collega Jim, sperando di trovare in lui un “sostituto” che gli consenta finalmente di lasciare  – sulle orme del padre – quella stretta esistenza domestica. C’è quello di Amanda, che nell’affanno per i figli  e nella ricerca ossessiva di un genero, rifugia la frustrazione per il proprio matrimonio fallito e la giovinezza sprecata. C’è anche quello di Jim (a cui Mario Pirrello dona un maschilismo sottile), che a Laura si avvicina con cordiali gesti, finché non deve ammettere di essere già promesso a un’altra, perciò il rispetto della disabilità, della timidezza e delle paure della ragazza, in fondo, non sono che una  “travestita” presa in giro per approfittarsi di lei. 

“Lo zoo di vetro”. Foto Masiar Pasquali

E poi c’è Laura (resa con determinata malinconia da Anahì Traversi), il centro dell’attenzione collettiva nonché l’unica che accetta la propria condizione, che nella sua timidezza si rintana, si adatta, tra dischi antichi e animaletti di vetro. Quelle piccole statuine alle quali dedica tutta la sua cura. Un vetro tanto trasparente da essere invisibile, da non esistere. Perché non c’è quello zoo di vetro che si rompe ma non si vede; non c’è quell’unicorno di vetro che si spezza ma non si vede. Lo si cerchi lì allora, tra personalità un po’ sognatrici e un po’ buffe, un po’ depresse e un po’ romantiche. Si rida e si patisca con loro. È teatro: è tutto una finzione. È tutto verissimo.

LO ZOO DI VETRO

di Tennessee Williams
adattamento e regia Leonardo Lidi
traduzione di Gerardo Guerrieri

con (in ordine alfabetico) Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Mario Pirrello, Anahì Traversi

scene e light design Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
sound design Dario Felli
assistente alla regia Alessandro Businaro
foto LAC / Masiar Pasquali

sponsor di produzione e coproduzione Clinica Luganese Moncucco
produzione LuganoInScena/LAC Lugano Arte e Cultura
in coproduzione con Centro d’Arte Contemporanea Teatro Carcano, TPE – Teatro Piemonte Europa
in collaborazione con Centro Teatrale Santacristina