Douglas Meakin, la voce che ha conquistato l’Italia

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Il musicista britannico si racconta: dagli esordi anni Sessanta al successo con le sigle TV: «Siamo partiti dal nulla, poi abbiamo lavorato con Morandi, Dalla, Venditti, De Gregori. Un giorno squillò il telefono: era Ennio Morricone».

Douglas Meakin è un personaggio straordinario. Musicista britannico, classe 1945, è uno dei protagonisti del panorama musicale italiano fin dagli anni Sessanta.
Cresciuto a Liverpool nello stesso quartiere di Ringo Starr – che conosceva e che andava a vedere al “Cavern” (il locale dove esordirono i Beatles)-, la sua vita cambia quando prende la strada verso l’Italia.

Per chi non lo sapesse, la sua voce e i suoi arrangiamenti fanno capolino un po’ ovunque tra le canzoni di moltissimi autori. E il suo è un percorso artistico che poi finisce per intrecciarsi strettamente con la storia della televisione, con il mondo delle sigle dei telefilm e soprattutto dei cartoni animati che negli Settanta e Ottanta hanno fatto sognare un’intera generazione.
Parliamo di un periodo pionieristico in cui molti grandi musicisti e parolieri si misuravano con un’ondata di nuovi prodotti provenienti in larga parte dal Giappone, diventandone così parte integrante nell’immaginario collettivo.
Ma andiamo con ordine. Lo abbiamo incontrato per una chiacchierata ricca di aneddoti. 

Douglas Meakin, lei è famoso e amato in Italia per il suo grande contributo dato alle sigle televisive. Fanno parte della sua lunga carriera anche l’incontro con i Motowns e, nel 1967, l’assegnazione del Cantagiro. Da allora non ha più lasciato il Belpaese. Come sono andate le cose?

Il nome Motowns in realtà lo abbiamo costruito in Italia. Io sono arrivato qui grazie a un altro complesso che si chiamava Denny Seiton & The Sabres. Denny un giorno mi ha chiamato e mi ha detto: «Ho sentito che stai cercando una band. Ti va di andare in Italia al posto mio per due mesi? Ovviamente quando torni, riprendo il mio ruolo di cantante».
Così siamo partiti per Roma. Poi, quando gli altri mi hanno sentito cantare, hanno detto: «Teniamoci Douglas!» (ride NdR). A quel punto si è deciso di cambiare il nome del complesso.
Visto che facevamo molti pezzi di una famosa etichetta americana, la Tamla Motown, abbiamo scelto quel nome lì. Eravamo io e Lally Stott, Tony Crowley, Mike Logan e Robbie Scott.
Grazie a un nostro manager abbiamo fatto qualche serata a Firenze. La prima volta c’erano due gatti a sentirci; dopo tre giorni c’era la fila fuori.
Una sera Roberto Davini (che poi è diventato il produttore di Claudio Baglioni) ci ha notato a Forte dei Marmi: era rimasto colpito perché prima di esibirci facevamo un po’ di cabaret.
Non avevamo una casa discografica, così lui è partito per Roma tornando il giorno dopo con un contratto per la RCA. Lo abbiamo firmato sulla spiaggia.

The Motowns

E il Cantagiro?

Tu immagina cinque “capelloni” di Liverpool in un posto come la RCA, il tempio della musica italiana. C’erano Gianni Morandi, Rita Pavone, Luigi Tenco e tantissimi altri. Ci hanno messo in una stanza piena zeppa di dischi: dovevamo sceglierne uno. Questo perché all’epoca andava molto di moda fare le cover. Abbiamo optato per Lovers of the World Unite (numero uno in Inghilterra), del duo David & Jonathan. Così il paroliere Sergio Bardotti ha adattato il testo e la canzone è diventata Prendi la chitarra e vai (accenna il ritornello, NdR).
Quell’edizione del Cantagiro l’ha vinta l’amico Massimo Ranieri con Pietà per chi ti ama. C’erano pure Adriano Celentano e Little Tony e altri grandi. Noi abbiamo vinto il premio dedicato ai complessi musicali. Da allora tutti ci cercavano per fare le basi delle loro canzoni: Gianni Morandi, Lucio Dalla, Antonello Venditti (che si stava imponendo come autore): le prime registrazioni lui e Francesco De Gregori le hanno fatte con noi. Due persone splendide.

Ecco, il panorama musicale inglese all’epoca era fantastico. Lei però è rimasto qui dove si trovava bene. È una scelta che rifarebbe?

Sì, assolutamente sì. Se mi dicessero di rivivere quel periodo direi subito di sì.

In Italia trova anche l’amore e si sposa con Rita Griffantini.

Quando l’ho conosciuta lei stava con “Le collettine” di Rita Pavone. Era in televisione ogni sabato con la trasmissione Stasera: Rita!. Poi ha cominciato anche a ballare accanto a Renato Zero.

In quegli anni di intenso lavoro alla RCA le dicono che sta arrivando un’ondata di cartoni animati dal Giappone, con molte sigle da fare. Come è andata di preciso?

Andavo alla RCA praticamente ogni giorno. Stavo lì dalle nove di mattina fino a sera. Era come casa mia. Un bell’ambiente dinamico.
Nel frattempo ero diventato grande amico di Olimpio Petrossi, uno dei produttori interni: eravamo come fratelli e parlavamo spesso dei Beatles, sua grande passione, perché sapeva che io ero di Liverpool e li avevo conosciuti.
In uno di quei giorni mi ha detto: «Sta arrivando una valanga di telefilm e cartoon, stanno cercando di fare musiche adatte a questi prodotti. Ti va di provarci?». Ovviamente ho detto di sì.
Dovevo fare la sigla di Lassie. Gli ho portato la registrazione e, settimane dopo, con qualche parola cambiata, la canzone era diventata Candy Candy.

Candy Candy è stato un successo strepitoso. Quanto è stato importante questo passaggio?

Beh io all’epoca non potevo immaginare che sarebbe diventato un tale successo. Olimpio mi affidò subito un altro progetto, Guerra fra le galassie, che però era un brano solo strumentale. Mi sono messo al lavoro con Dave Sumner, chitarrista che suonava con me e che aveva militato nei Primitives di Mal.
Quel periodo è pieno di storie interessanti da raccontare (ride NdR). Era fantastico, c’erano tante collaborazioni, artisti di ogni genere. E la sigla andò bene.

Come si svolgeva il lavoro per la RCA? Come nasceva una canzone?

Non c’era un meccanismo troppo complicato. Dopo questi inizi, Olimpio Petrossi semplicemente aveva una tale fiducia in me che mi diceva: «Questo è il telefilm di cui bisogna fare la sigla», e mi lasciava praticamente carta bianca. E ogni pezzo diventava un successo. 

Nel 1979 nascono I Superobots, una sorta di “cooperativa delle sigle”, cioè un gruppo “contenitore” composto da musicisti interni della RCA che, di volta in volta, si davano il cambio nella realizzazione delle sigle. Il nucleo principale di artisti però ruotava sempre attorno a lei. Nel 1980, si arriva anche alla formazione dei Rocking Horse, con Mike Fraser. Come mai due gruppi diversi?

Beh il fatto è che c’erano un sacco di cartoni animati pensati per un pubblico soprattutto femminile, come appunto Candy Candy o Lulù, la ragazza dei fiori. Perciò Olimpio Petrossi pensava di usare due nomi diversi: per i cartoni animati che avevano per protagonisti soprattutto i robot, o che comunque erano ambientati nello spazio, ci voleva un sound più aggressivo e suonavamo usando il nome Superobots. Ma per un tipo di sigla più delicata, per un cartone animato che si rivolgeva più alle ragazzine, dovevamo usare un nome diverso. Io a quel punto ho proposto Rocking Horse, cioè “cavallo a dondolo”. 

I Superobots

C’è un episodio in particolare che ricorda nella creazione di queste sigle?

La prima sigla dei Superobots fu Il Grande Mazinger, scritta da Massimo Cantini con l’arrangiamento di Aldo Tamborelli. Quello è un pezzo bellissimo: aveva un ritmo molto veloce e mi piaceva molto come era strutturato. Era innovativo.
Mi ricordo anche delle tante telefonate che arrivavano per affidarci nuove sigle, e bisognava realizzarle molto alla svelta.

A proposito di “chicche”, lei durante la sua carriera artistica ha collaborato anche con Ennio Morricone. Quali ricordi ha di lui? C’è un episodio in particolare che vorrebbe raccontarci?

Un giorno suona il mio telefono di casa. Era Ennio Morricone. Mi chiede se il giorno dopo, potevo andare ai Forum Studios. E che facevo, dicevo di no?
Vado, chiedo di lui, apro la porta ed eccolo che mi dice di entrare. Accanto a lui c’era Sergio Leone! Mi presenta: «Lui è Dougie e deve cantare il pezzo che ci serve». Mi chiede se conosco la canzone Yesterday e ovviamente rispondo di sì.
Il brano era per il film C’era una volta in America. Mi porta al pianoforte e mi fa cercare la tonalità giusta per cantare la parola “yesterday”. Quando la troviamo, mi dice: «Va bene, torna qui tra una settimana».
Sono uscito da quello studio che sognavo, camminavo a un metro da terra.
Al mio ritorno trovo l’orchestra già schierata e lui che mi fa segno di andare a mettermi seduto. Lì trovo un microfono e uno spartito lunghissimo. Non ci capivo nulla! Poi arriva il mio momento: sbaglio! Sbaglio più volte. Morricone voleva riprovare più tardi, così ho passato la giornata ad ascoltare questa musica meravigliosa che aveva creato.
Al suo segnale, canto la parola “yesterday”. Poi mi zittisce mentre l’orchestra continua a suonare. Mi dà nuovamente il via e intono la parola “suddendly”. A quel punto zitto di nuovo.
Ecco, la mia performance era finita lì, gli ero servito, con tutto il mio carico di ansia, per appena due parole.
Ennio Morricone, devo dire, era un vero signore.

Quando ha cominciato a pensare che quell’epoca d’oro stava terminando, che qualcosa stava cambiando?

Molto semplicemente non arrivavano più sigle da fare. Pian piano non ci chiamavano più, il lavoro diminuiva. Tutto qua.
Anche il momento “cult” in cui sono tornate di moda queste sigle sta poco alla volta svanendo.
Mi chiamavano moltissimo, tutte le settimane, per cantare queste sigle; c’erano tante serate da fare. Adesso molto meno. Il tempo sta passando, alle nuove generazioni non interessa quella musica, oggi hanno tanto da fare con Tik Tok. 

A proposito del momento di “revival” delle sigle televisive, un fenomeno iniziato nel primo decennio degli anni 2000, ci sono state tante manifestazioni che hanno dato spazio a questo genere di musica. Lei cosa ne pensa delle tante band che si sono formate per fare cover delle vostre canzoni?

A me fa molto, molto piacere che esistano queste band. La mia prima volta al “Lucca Comics” mi hanno invitato proprio i componenti de La mente di Tetsuya (formazione veneziana, NdR).
Li ho conosciuti tutti e devo dire che mi piacciono gli arrangiamenti che usano per suonare le sigle dei cartoni animati, sono molto più moderni. 
In genere mi fa comunque piacere quando una band decide di rifare un pezzo che ho scritto io.

Da qualche anno il “Romics” ha istituito il “Musicomicsdedicata al mondo delle sigle televisive. Durante la prima edizione ha ricevuto il premio alla carriera “Luigi Albertelli”. Cosa significa questo premio e cosa ricorda di quel giorno? (Purtroppo, poco tempo prima dell’evento, era venuto a mancare proprio Olimpio Petrossi, che tra l’altro faceva parte della giuria).

Mi manca moltissimo Olimpio Petrossi. Ci sentivamo sempre, parlavamo della nostra grande passione per i Beatles. Olimpio era un grande.
Io non capivo, un po’ ignorantemente, l’importanza di questo premio. Poi quel giorno, quando sono salito sul palco, c’è stata una standing ovation come non mi era mai capitato. Ho cantato davanti a tante persone, in uno stadio, ma quel giorno ero emozionatissimo e stavo piangendo.
Non ho mai vissuto un’esperienza così. Non c’è nulla di più bello che vedere tante persone che applaudono felici per te.
Questo è un premio importante: durante l’ultima edizione del “Musicomics” sono tornato con piacere alla Fiera di Roma per consegnarlo a Franco Micalizzi, altro bravo autore.

Rispetto alle sigle degli anni Ottanta, cosa ne pensa di quelle di oggi? Le ascolta mai?

Ogni tanto provo a vedere se c’è qualcosa di interessante. Se mi capita un cartoon diverso, qualcosa di nuovo, aspetto per esempio i titoli di coda per ascoltare la sigla e capire di cosa si tratta. Ma no, non mi piacciono mai. Noi facevamo altro.
Io scrivevo con Mike Fraser e per confezionare i nostri provini partivamo dal nulla. Quando trovavamo la melodia, facevamo qualche prova e poi dovevamo preparare la musica da portare a Olimpio Petrossi. Così Mike prendeva il suo mixer a quattro piste: sulla prima dovevamo mettere il suono della batteria. Ma all’epoca la batteria elettronica non esisteva. Come risolvere? Allora dal momento che lui aveva un piccolo microfono, lo mettevano accanto a un metronomo che piazzavamo sotto un secchio di plastica. E quel “boom boom”, il rimbombo che usciva fuori… quella era la nostra batteria!
A quel punto cominciavamo a registrare, uscivamo e andavamo al bar di fronte. Il tempo di un paio di birre e tornavamo su. Ed ecco che avevamo la base con la “batteria” e registravamo il resto.
Era una vero e proprio lavoro artigianale. Molto artigianale.
Quello che viene fatto oggi, quindi, non mi colpisce molto. Noi facevamo vere e proprie canzoni, mettevamo un altro tipo di arte. Adesso sono cambiate le sigle televisive ed è cambiato il modo di crearle. Noi facevamo canzoni, appunto, non “sigle”.

Douglas Meaking

Qualche segreto del mestiere?

Per esempio trovare la frase giusta da mettere all’inizio, come in Forza Sugar, che era la storia di un pugile: così l’ho scritta pensando a Muhammad Alì, che era a modo suo un ballerino.
Allora le parole dicevano “Seems dancing around the ring and the crowd is going wild, everybody shouting forza Sugar!”,  perché io scrivevo prima di tutto in inglese, mi veniva meglio. Lucio Macchiarella poi l’ha adattata. Lui era bravissimo perché prendeva le sillabe di quello che scrivevo e riusciva a ricreare la stessa melodia passando dall’inglese all’italiano.

Le manca qualcosa di quegli anni?

No, non credo mi manchi nulla in fondo. Forse un po gli anni Sessanta, perché si è trattato del momento più bello della mia vita. Avevo vent’anni.
Guardo al passato con serenità senza nostalgia. Sono felice, non posso lamentarmi della mia vita.

Ancora oggi sono in tanti i suoi fan. È infastidito da questa popolarità? O del fatto che le chiedono spesso le stesse canzoni?

No, assolutamente no. Io sono molto contento di parlare con i fan e di stare con loro. Mi fa molto piacere. 

Ci sono nuovi progetti musicali in arrivo?

Sì, in realtà uno c’è. Devo scrivere una nuova canzone per i Superobots. E voglio scrivere un bel pezzo, perché penso che sarà l’ultimo, il prossimo mese faccio ottant’anni. 
È una canzone per una serie dedicata a un robot giapponese, ma ancora non dico quale. Esce il prossimo anno. 

Fuori il sole comincia a calare; è tempo di salutare Douglas Meakin.
In questo pomeriggio entusiasmante abbiamo ripercorso anni irripetibili, con la notizia che i Superobots stanno per tirare fuori una nuova sigla. Un’ottima notizia per tutti gli appassionati.
Prima di andare lo ringraziamo soprattutto per la grande cordialità con cui ha risposto alle nostre domande, quella di un cantante che è stato a lungo protagonista della cultura pop italiana e che a ottant’anni non ha affatto perso la voglia di suonare e divertirsi.