Queer. Luca Guadagnino e la grammatica del desiderio

Visionario, spietato, necessario. Il nuovo film di Luca Guadagnino trasforma la brama in vertigine. Con un Daniel Craig in rovina sublime. Dal 17 aprile al cinema
Distribuito da Lucky Red e presentato in anteprima all’ottantunesima Mostra del Cinema di Venezia, Queer arriva nelle sale italiane dal 17 aprile.
È un film che non si lascia addomesticare: ossessivo, ripetitivo, alienante. Ma è anche una delle opere più radicali e necessarie del cinema recente.
Con questo adattamento spietato del romanzo di William S. Burroughs, Luca Guadagnino rinuncia alla narrazione, smonta il desiderio, lascia solo i detriti. Ed è proprio in questi detriti che si nasconde qualcosa di essenziale.

Lee (Daniel Craig), alter ego dello stesso Burroughs, è un uomo in rovina: tossicodipendente, logorroico, desiderante. Vive a Città del Messico negli anni Cinquanta, ma potrebbe essere ovunque e oggi. È disconnesso da tutto, eppure ancora capace di cercare un contatto. Insegue Eugene (Drew Starkey), oggetto muto e inaccessibile di un desiderio che non vuole risposta: vuole solo durare.
Chi conosce Burroughs sa che adattarlo è quasi impossibile. Cronenberg, con Il pasto nudo, aveva scelto il delirio biografico e l’horror corporeo. Guadagnino prende un’altra strada: il desiderio come struttura cognitiva, come lente distorta che trasforma il mondo in teatro visionario.
Dove Cronenberg mostrava l’inconscio come insetto parlante, Queer lavora sull’ambiguità poetica: il corpo di Lee si fa trasparente, i luoghi si sfumano, il tempo si dilata. Non spiega Burroughs: ne riproduce la vertigine.

La performance di Daniel Craig è la più potente della sua carriera. Si libera dell’armatura di James Bond con un gesto tanto vulnerabile quanto radicale, e proprio per questo riesce.
Il suo corpo, qui, non è più superficie eroica, ma materia viva, dolente, disgregata. Guadagnino lo inquadra senza pietà né indulgenza: non lo redime, lo espone. E proprio così lo include.
L’inclusione, in Queer, non è accogliere il diverso educato, ma sostenere l’incoerente, il non redimibile.
Lee incarna una figura queer che sfugge a ogni stereotipo: non è né effeminato né sottomesso, ma burbero, molesto, ossessivo. Guadagnino lo racconta come essere umano interrotto, non come icona.
Come in Bones and All, anche qui il desiderio è fame: non romantica, ma metabolica. Una fame che non si sazia, che consuma, che continua a chiedere. Lee desidera Eugene come si desidera una risposta da Dio: sapendo che non arriverà. Eppure, continua.
Questo desiderio non corrisposto è una forma di lavoro interiore, una prestazione emotiva. Il film mostra il lavoro invisibile di chi offre se stesso sapendo di non essere scelto.
Visivamente, Queer è una macchina di disorientamento. Guadagnino mescola costumi d’epoca, CGI teatrale, luci filtrate, dissolvenze, retroproiezioni. Ogni scelta stilistica rifiuta il realismo per costruire una sinestesia queer del mondo. La Città del Messico non è uno spazio: è un umore, una febbre.

Il film raggiunge il suo punto di rottura nella seconda metà: l’ayahuasca che Lee assume è il detonatore di una sequenza psichedelica in cui la narrazione si dissolve e il desiderio diventa coreografia. I corpi non dialogano, danzano. Guadagnino non gira una storia: orchestra un campo emotivo.
Lee è ossessionato dalla telepatia, ma ciò che vuole è essere capito senza parlare. Un sogno infantile e profondamente contemporaneo.
Nel mondo delle relazioni digitali, dell’empatia algoritmica, questo bisogno di comprensione assoluta – senza spiegazione – è forse la tensione più radicale del presente.
Il film si chiude nella disfatta. Nessun arco narrativo, nessuna trasformazione. Guadagnino non cerca di insegnare nulla. Non addolcisce. Non salva. Ma lascia lì, a sedimentare, un’immagine: quella di un uomo che cade e non smette, nemmeno nel cadere, di desiderare.
Come Pasolini in Teorema, come Bergman in Persona, come Burroughs in Il pasto nudo, Queer rifiuta di rassicurare. Non ci aiuta a capire. Ma ci obbliga a restare nella zona dove le verità si spezzano.
E ci chiede – questo sì – di non distogliere lo sguardo.
QUEER
Un film di Luca Guadagnino
con Daniel Craig, Drew Starkey, Lesley Manville, Jason Schwartzman, Henrique Zaga, Omar Apollo, Andra Ursuta, Andres Duprat, Ariel Schulman, Drew Droege, Michael Borremans, David Lowery, Lisandro Alonso, Colin Bates
Produzione: The Apartment, Frenesy Film Company, Fremantle North America in collaborazione con Cinecittà Spa e Frame by Frame
Distribuito da: Lucky Red