Bird. Un volo riuscito a metà

Dall’8 maggio in sala, il ritorno alla regia di Andrea Arnold con un film che azzarda a unire la crudezza del realismo alla leggerezza della visionarietà. E ci riesce, ma non del tutto

Presentato in concorso al Festival di Cannes 2024, Bird segna il ritorno dietro la macchina da presa di Andrea Arnold, a otto anni da American Honey.
Dall’8 maggio nelle sale italiane con Lucky Red, il film porta sullo schermo il consueto mondo marginale caro alla regista britannica – una periferia degradata, un nucleo familiare fragile, un’adolescente in cerca di senso – ma lo fa intrecciando al consueto realismo uno strato fiabesco, quasi magico.

È un film che tenta qualcosa di difficile: coniugare lo sguardo spietato del realismo sociale con la leggerezza visionaria della parabola simbolica. A tratti ci riesce, in altri momenti si smarrisce. 
La protagonista, Bailey, dodici anni, vive nel Kent insieme al fratello minore e a Bug, il padre, giovane e irrequieto.
In questa famiglia disordinata e assente, la bambina cerca rifugio in un mondo personale fatto di video, piccoli riti di ribellione, e in un incontro che cambierà il corso – o almeno la percezione – della sua storia.

Bird
“Bird”. Regia: Andrea Arnold

L’incontro è quello con Bird (Franz Rogowski), una figura erratica e indefinita, che si presenta come un’apparizione: un uomo dal passato misterioso, abbigliato in modo eccentrico, con il tono del profeta svanito e i gesti di un clown malinconico.
Non si sa da dove venga, né perché sia lì. Bird entra nella vita di Bailey come una presenza poetica e destabilizzante: un angelo, forse. O una proiezione.

In questa ambiguità si misura la scommessa del film, ma anche il suo limite.
Arnold ha sempre raccontato l’infanzia senza veli, senza sovrastrutture, con la crudezza dei fatti e la grazia degli sguardi. Qui tenta qualcosa di diverso: inserire la possibilità del sogno dentro la realtà più cruda. Ma il patto tra le due dimensioni non sempre regge.
La storia si apre con grande intensità – grazie anche alla presenza magnetica della giovane Nykiya Adams, al suo primo ruolo – e si appoggia inizialmente su una costruzione rigorosa, fatta di osservazione, dettagli e silenzi. Ma via via che la componente simbolica prende piede, il racconto perde presa, si fa sfocato, indeciso.

Bird
“Bird”. Regia: Andrea Arnold

Il problema non è la presenza del fantastico, ma il suo uso vago. Bird non è mai davvero una figura narrativa, e nemmeno un’allegoria compiuta. È un’idea lasciata sospesa, non sviluppata fino in fondo. E la relazione con Bailey, che avrebbe potuto diventare il centro del film, resta appena accennata: un legame poetico, sì, ma fragile, come un sogno interrotto al risveglio.

Molto più centrata è la rappresentazione del contesto familiare, soprattutto nella figura del padre, Bug, interpretato da un Barry Keoghan che conferma di essere uno degli attori più interessanti della sua generazione.
Bug è un disastro ambulante, affettuoso ma inaffidabile, immaturo e imprevedibile. Ha momenti di tenerezza e altri di puro spaesamento.
In una scena cult – mentre canta Yellow dei Coldplay a un rospo, cercando di “attivare” il suo muco allucinogeno – Keoghan riesce a restituire l’umanità tragicomica del personaggio. È uno di quei momenti in cui Arnold tocca qualcosa di vero: l’assurdo che abita le vite normali.

Bird
“Bird”. Regia: Andrea Arnold

Tecnicamente, il film è costruito con cura. La fotografia di Robbie Ryan è, come sempre, un elemento centrale: fatta di luce naturale, inquadrature ravvicinate, un’intimità che si avvicina al respiro dei corpi.
Il Kent, come luogo, non è un paesaggio: è un organismo. Cemento, cielo, pozzanghere, spazi abbandonati e fessure dove la natura si insinua.
La camera segue Bailey come un’ombra gentile, ma senza edulcorazioni.

Anche il suono ha un ruolo decisivo. La colonna sonora elettronica di Burial, insieme ai brani dei Fontaines D.C. e di Gemma Dunleavy, accompagna il film con coerenza e profondità emotiva. È un paesaggio sonoro che si intreccia all’umore dei personaggi, non li sovrasta. Anzi, in certi momenti riesce a dire più di quanto facciano le immagini. Il suono, qui, non è decorativo: è espressivo.

Ma nonostante la potenza visiva e l’onestà emotiva, Bird resta un film irrisolto.
La seconda metà si sfilaccia, la tensione cede, le domande restano in sospeso – non in modo fecondo, ma come se qualcosa si fosse perso nella scrittura.
Il finale cerca una catarsi simbolica, ma appare più come una facile fuga dalla complessità che come una sua sublimazione.
Arnold, che in passato ha affrontato il dolore senza sconti, qui sembra indietreggiare di fronte al trauma, preferendo la metafora alla verità.

Bird
“Bird”. Regia: Andrea Arnold

Bird è un film che vuole parlare di libertà, di crescita, di desiderio di fuga – ma lo fa con un linguaggio che, per quanto poetico, si rivela spesso impalpabile.
Non è un fallimento, ma è un’opera minore. Di una regista capace di molto di più.
Alla fine, resta il volto di Bailey: occhi affamati, rabbia urlata che non cerca perdono, il corpo di un’adolescente che spinge contro tutto ciò che la stringe. C’è in lei il desiderio feroce di diventare donna, senza concessioni. Ma il film si ferma un passo prima di riuscire davvero.
Promette il volo, e invece resta a terra.

BIRD
Un film di Andrea Arnold

con Barry Keoghan, Franz Rogowski, Nykiya Adams, Jason Buda

Produzione: House Productions, Ad Vitam Production, Arte France Cinéma
Distribuito da: Lucky Red

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