Lezioni di persiano. Intensa narrazione del male
Ottimamente girato e intensamente recitato, il film dell’ucraino Vadim Perelman racconta l’orrore dell’Olocausto attraverso l’immaginario paneuropeo del dramma
Sull’Olocausto si è detto moltissimo negli anni, anche al cinema. Difficile cercare di aggiungere qualcosa, di mostrare episodi mai narrati o situazioni mai affrontate altrove, non senza caricare ulteriormente la parte più violenta e più crudele di quella che rimane una pagina buia della storia umana. Eppure, Lezioni di persiano di Vadim Perelman (che uscirà in sala il 19 novembre) riesce a offrire una vicenda avvincente e certamente originale.
Nel 1942, nella Francia occupata, Gilles (Nahuel Perez Biscayart) viene catturato assieme ad altri ebrei. Sfugge miracolosamente a una esecuzione sommaria delle SS, unico sopravvissuto grazie a un colpo di fortuna e a un disperato tentativo. Poco prima infatti, proprio da uno dei suoi malcapitati compagni di viaggio, ha acquisito un libro scritto in farsi, lingua della Persia. Esibendolo come prova, si spaccia appunto per persiano, millantando di essere stato rastrellato per errore assieme agli altri ebrei. A nulla varrebbero le sue suppliche, se uno degli ufficiali del vicino campo di prigionia, Klaus Koch (Lars Eidinger), non avesse promesso alcune preziose scatolette di carne a chi gli avesse scovato e portato proprio un persiano. Il motivo della strana richiesta è presto detto: Koch desidera infatti emigrare a Teheran alla fine della guerra, che a suo parere durerà ancora un paio d’anni, giusto il tempo per imparare il farsi e coronare il suo sogno di aprire un ristorante in Persia.
È l’inizio di una colossale bugia e di una magistrale messa in scena che Gilles deve portare avanti giorno dopo giorno: naturalmente non conosce una parola di persiano e dunque è costretto a creare egli stesso una lingua, inventandola partendo da zero e ripetendola a memoria mano a mano che la insegna all’ignaro Koch. La chiave per memorizzare centinaia di termini presi dal nulla è la combinazione arbitraria dei nomi degli altri prigionieri, inconsapevoli complici dell’improvvisato insegnante e artefici della sua salvezza. Ma la strada è lunga e i sospetti su Gilles aumentano con l’inesorabile trascorrere dei mesi. Non è facile tenere in piedi una menzogna per tutto questo tempo e più aumentano le difficoltà, più aumenta la frustrazione per non riuscire a fermare l’immane tragedia che scorre di fronte ai suoi occhi, testimoni forzati di uno spietato massacro.
Basato sul racconto Erfindung einer Sprache (Invenzione di una lingua), pubblicato nel 2004 da Wolfgang Kohlhaase, il film ci parla dell’importanza del linguaggio (vera e peculiare caratteristica che differenzia l’uomo dagli animali), ma ci mostra anche quanto il desiderio insopprimibile di sopravvivere può portarci a ideare soluzioni geniali (o folli) pur di non arrenderci al destino. Vadim Perelman, canadese ma ucraino ed ebreo di nascita, è un regista noto per essere molto selettivo con le sceneggiature e, anche qui, è rimasto conquistato dai molteplici aspetti che questa pellicola racchiude. Una storia di resilienza, di acume, di disperazione, di coraggio. I suoi personaggi si muovono in uno scenario che si evolve di continuo: il campo di prigionia non è uno scenario immobile, i guardiani non sono semplici robot assassini. All’interno di questo ambiente, con lo scorrere degli anni, si intessono amicizie, gelosie, amori.
Nessuno dei protagonisti è una semplice sagoma, essi mostrano invece i loro lati spiccatamente umani, senza l’esistenza di un semplicistico schema in bianco e nero, questo vale anche per i nazisti (il che probabilmente li rende perfino più terrificanti). Non esiste mai serenità, la tensione è palpabile ogni volta che l’acerrimo nemico di Gilles, il caporale Max (Jonas Nay), sembra aver trovato il modo di smascherare il trucco cui non ha mai creduto. È la stessa tensione che si vive nel pericolo estremo di arrabattarsi per continuare a insegnare un farsi totalmente artefatto, senza potersi permettere alcun passo falso. Eppure, questo fantasioso persiano diventa un efficace mezzo con cui Gilles e Koch possono cominciare a comunicare a un livello più intimo, consapevoli che nessun altro è in grado di comprendere le loro confidenze. È solo così che l’ufficiale nazista, in una struggente scena, riesce a confessare i motivi per cui ha aderito al partito, un’illusione che ha ben funzionato in un paese prostrato dalla miseria e dalle umiliazioni subite in seguito alla sconfitta del 1918.
Una confessione di un sol uomo, eppure una tragica e lucida ammissione di un paese intero, impietosamente messo in ginocchio e condotto quasi dai suoi stessi nemici tra le braccia di Hitler. E c’è spazio anche per svelare il doloroso segreto che in realtà tormenta Koch e che è alla base delle sue aspirazioni e dei suoi sogni di una vita migliore a Teheran.
È una narrazione bellissima, Lezioni di persiano. Ottimamente girata e intensamente recitata da tutti gli attori, usando non solo l’immaginario persiano, ma anche il francese, il tedesco e l’italiano, dando così un’impressione realmente paneuropea del dramma in cui si svolge la vicenda. Senza dubbio una delle poche, imperdibili gemme cinematografiche di questo 2020.
LEZIONI DI PERSIANO
Sceneggiatura: Ilya Zofin
Regia: Vadim Perelman
Con Nahuel Pérez Biscayart, Lars Eidinger, Jonas Nay, Leonie Benesch, Alexander Beyer, Luisa-Céline Gaffron, David Schütter
Produzione: Daniil Makhort, Ilya Stewart, Murad Osmann, Pavel Buria, Ilya Zofin, Vadim Perelman, Timur Bekmambetov, Rauf Atamalibekov
Distribuito da: Academy Two
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