Su un palco-mondo va in scena la poesia dei corpi insorti
Giurare. Etimologicamente richiama una sacralità a testimonianza della verità di quel che si dice, corroborando la propria promessa o obbligando se stessi al suo fedele rispetto. Sacro, dunque, è l’atto del giuramento (più o meno esplicitamente rituale) e sacra è la parola, pronunciata da un corpo e ricevuta da altri corpi, convocati e predisposti all’incontro, alla condivisione, alla comunicazione.
Su questo slancio creativo nasce Giuramenti, ultima produzione del Teatro Valdoca che ha debuttato in prima regionale al Vascello di Roma (fino allo scorso 25 marzo), e che è esito laboratoriale di tre mesi di vita e lavoro condivisi a L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino per dodici giovani interpreti diretti da Cesare Ronconi (che cura anche scene e luci) e guidati dai testi poetici di Mariangela Gualtieri, con la drammaturgia del corpo di Lucia Palladino.
La storica compagnia cesenate – che ha alle spalle trentacinque gli anni di attività -, tra le più influenti realtà di ricerca degli anni Ottanta, associa all’impulso registico di Cesare Ronconi, visionario, simbolico, e con originali tendenze espressioniste, il verso di Mariangela Gualtieri, che è intimo rapimento di senso, tangibile rivelazione del sentire. Un sodalizio che ha radici nella ricerca sul corpo della parola e sul corpo dell’attore, per una direzione pedagogica che si misura ora con l’esercizio fisico, lo scatto atletico di voce parlata, cantata, di correnti anatomiche per un ensemble di dodici ventenni (Arianna Aragno, Elena Bastogi, Silvia Curreli, Elena Griggio, Rossella Guidotti, Lucia Palladino, Alessandro Percuoco, Ondina Quadri, Piero Ramella, Marcus Richter, Gianfranco Scisci e Stefania Ventura).
A loro si chiede di osservare, accusare, percepire un mondo esterno sanguinante e fratturato; a loro, parti di un unico Coro – nel solenne valore di sagacia arcana della tragedia greca -, di unanime solidarietà, si chiede di essere rappresentanti di emotività scalcianti, di enigmi ribelli, di turbamenti irrinunciabili che la realtà d’oggi suscita alla giovinezza. Sono tante voci all’unisono – da riconoscere il lavoro registico e interpretativo sulla coralità, sul singolo che aderisce alla sincronia per dar vita alla collettività – che col canto, con delicati impeti dialoganti e monologanti, urlano al mondo assopito, generalista e superficiale, la propria e l’altrui presenza; la propria e l’altrui solitudine, il proprio e l’altrui silenzio.
Lo spazio di concezione minimalista (che comprende anche un gong, una riflettente superficie concava che specchia e capovolge la scena, e un decentrato giaciglio di ferro, opera di Francesco Bocchini) è abitato da sorgenti luminose e sonore, e da oggetti perifericamente disposti, in attesa – anche un po’ prevedibile – di essere utilizzati, di diventare strumenti d’azione e reazione dei “caratteri” umani. Caratteri e non personaggi: singolarità prive di psicologia, volti appartenenti a un tempo senza passato né futuro che prendono posto in questo palco/mondo cantando in diverse lingue, seduti in cerchio, mentre uno li loro già esegue lenti movimenti su piccoli trampoli, a scandire uno scorrere di secondi che si altera, si dilata. Come accade alla presa di coscienza di suoni, di immagini, di sensi sbandati, deformati, rigenerati.
E se si ammira il lavoro sulla coralità, sul “corpo di corpi”, definito anche dalla complementarità di suoni, ritmi, volumi impressi ed evocati dalla coreografica interazione fisica con la scena stessa, è anche vero che il tessuto, la struttura che ci accompagna in questo percorso teatrale, tende a sfibrarsi in passaggi e momenti che, per quanto alcuni sinceramente apprezzabili, restano scollegati. Si avverte, cioè, la distanza che s’insinua tra le evoluzioni danzanti nel cerchio, o le melodie istintive di campanelle suonate marciando, o le maschili acrobazie marziali che accompagnano un sovversivo “no” ribadito a gran voce. Distanza che lascia trasparire e prevalere l’identità laboratoriale del lavoro su una più complessa e complessiva omogeneità drammaturgica e testuale, su una poesia che si fa terreno di un bisogno arcaico, imprescindibile: la responsabilità di voler essere vivi, di voler essere risvegliata relazione placida e animalesca con se stessi e con gli altri, di voler essere ri-generatori di volontà, di scomodità, di misteri: in altre parole, di volersi dichiarare all’arte, al teatro.
Tu sei senza silenzio.
Chi è senza silenzio
Non trova le parole.
Cosa chiedo? A chi chiedo?
Chiedi al tuo silenzio di tornare.
Giuramenti
regia, scene e luci Cesare Ronconi
testi Mariangela Gualtieri
drammaturgia del corpo Lucia Palladino
con Arianna Aragno, Elena Bastogi, Silvia Curreli, Elena Griggio, Rossella Guidotti, Lucia Palladino, Alessandro Percuoco, Ondina Quadri, Piero Ramella, Marcus Richter, Gianfranco Scisci, Stefania Ventura
cura e ufficio stampa Lorella Barlaam
guida del canto Elena Griggio
costumi Cristiana Suriani
proiezioni Ana Shametaj
costruzioni in legno Maurizio Bertoni
scultura in ferro Francesco Bocchini
produzione Teatro Valdoca
con la collaborazione di L’arboreto-Teatro Dimora di Mondaino, Teatro Petrella di Longiano
con il contributo di Regione Emilia-Romagna, Comune di Cesena, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna
con il sostegno di Emilia Romagna Teatro Fondazione
pubblicato su Il Giornale OFF, il 27 marzo 2018
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