Se chiudi Zio Vanja in una teca

Prima nazionale al Carignano di Torino per il dramma di Čechov diretto da Kriszta Székely, con  umanità soffocate dall’inerzia dello stare al mondo

Fino al 26 gennaio, al Teatro Carignano di Torino, è possibile entrare in contatto con una particolare versione dello Zio Vanja di Anton Čechov che fa capo, per direzione e adattamento (condiviso con Árimin Szabó-Székely) a Kriszta Székely, giovane e ispirata regista ungherese che firma, in questa produzione dello Stabile di Torino, la sua prima regia italiana.

“Zio Vanja”. Foto Andrea Macchia

Si abbandoni l’immagine calma, immobile e stantia dell’”interno” cechoviano, quello del russo salotto borghese di provincia, colmo di un tempo rarefatto e inesauribile, pronto ad accogliere personaggi affaticati, sfiancati dalla propria incapacità di modificare se stessi e la propria esistenza. Si abbandoni tale collocazione spaziale, per impattare in una specie di serra, di teca-container in vetro dove trovano posto una zona giorno con tavolo, frigo, scrivania e sedie, e circondata da un ballatoio sopraelevato, da una centralina elettrica, e, più in là, dalle quinte, lasciate a vista.
È un habitat – le scene sono di Renátó Cseh – che rimanda subito al caldo estivo, torrido e asfissiante pensato dall’autore russo, attraversato da notti insonni, pomeriggi infiniti, rapidi temporali, e arrivi e partenze così attese e desiderate eppure capaci di scuotere solo per un po’ la quiete esistenziale dei residenti.  

“Zio Vanja”. Foto Andrea Macchia

In questa serra Kriszta Székely inserisce i personaggi e ricrea la loro naturale, innata condizione di sopravvivenza, più che di vita. Si vede, attraverso le vetrate, il loro flemmatico modo di agire a reagire, la loro cronica abitudine al rimando, il loro essere volontà, pensiero, teoria reazionaria erosa, annichilita nella pratica dall’inerzia del non-fare. 

È un terreno comportamentale alterato da contrasti relazionali, segreti custoditi con ansia, impeti di collera, spasmi in opposizione ad avances recidive, e persino sprazzi di ironia inattesa che Čechov scrive tra le righe e che la visione di Székely esalta, rende esplicita (anche con freddure verbali) talvolta eccessivamente, a scapito, di quel senso di malinconia reiterata e comune che attanaglia i personaggi, le loro storie e le loro ambizioni.

“Zio Vanja”. Foto Andrea Macchia

Ma si deve agli attori la restituzione di caratteri netti, spudorati nel loro essere – chi in un modo, chi nell’altro – infelici, tediati, irritatamente rassegnati. Due nomi su tutti: primo, Paolo Pierobon che è un Vanja tanto cocciutamente depresso quanto furiosamente carico di stizza in primis verso se stesso, la propria vita sprecata e le occasioni mancate, poi verso la madre (Ariella Reggio) e, soprattutto, il cognato Serebrjakov, che non riesce a far fuori nemmeno sparandogli da distanza ravvicinata. Secondo, Lucrezia Guidone che è una Jelena consapevole e insieme vittima del proprio fascino, centro di gravità delle attenzioni altrui, determinata (nelle intenzioni) a riscattarsi da un’infelicità sbagliata, a trasgredire i vincoli morali, a svincolarsi dal ruolo malvisto di nuova moglie e matrigna. Nelle intenzioni. E, sempre nelle intenzioni, si fa anche chioccia per una Sonia (Beatrice Vecchione) adolescenziale e timida, figlia di un Serebrjakov (Ivano Marescotti) diventato qui egocentrico regista convinto e fallito: lei, tenacemente infatuata di un dottor Astrov (Ivan Alovisio) passionale anche nella tendenza all’ubriacatura cronica ed esperto, radicale fautore dell’ecosostenibilità.
Insieme a un’amorevole e un po’ fatalista Marina (Federica Fabiani), e un simpatico e insieme disperato Teleghin (Franco Ravera), gli uomini e le donne di Zio Vanja sono costretti alla convivenza. Si incontrano, si lasciano scivolare in conversazioni infruttuose, utili, però, a svelarci l’anima di ognuno, così inquieta, stanca, ribelle ma sempre incapace di insorgere, fino alla fine. Ora se ne sono andati.

ZIO VANJA

di Anton Čechov
regia Kriszta Székely
adattamento Kriszta Székely e Ármin Szabó-Székely
traduzione Tamara Török curata da Emanuele Aldrovandi

con Paolo Pierobon, Ivano Marescotti, Ariella Reggio, Ivan Alovisio, Federica Fabiani, Lucrezia Guidone, Franco Ravera, Beatrice Vecchione

scene Renátó Cseh
costumi Dóra Pattantyus 
luci Pasquale Mari 
suono Claudio Tortorici 

produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Teatro Carignano
Piazza Carignano 6, Torino

Orari degli spettacoli: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 20.45; domenica, ore 15.30. Lunedì riposo.

info e contatti: 011 5169555 – Numero verde 800235333 – info@teatrostabiletorino.it – www.teatrostabiletorino.it