Respect. Aretha Franklin tra i successi e qualche sbadiglio
In sala dal 30 settembre, la storia della grande cantante americana nel film diretto da Liesl Tommy, con Jennifer Hudson e un lodevole Forest Whitaker
È sempre molto difficile fare un film biografico su un grande personaggio: ancora di più quando si tratta di un celebre cantante. Si rischia di cadere nel macchiettistico, di mitizzarlo nascondendone i difetti, oppure si fa l’errore opposto, finendo cioè per scavare nei fatti più pruriginosi della sua vita. Concetto che vale anche per Respect di Liesl Tommy (in sala dal 30 settembre), che racconta la vicenda di Aretha Franklin (prima donna della storia a entrare nella “Rock & Roll Hall of Fame”) non senza incappare in molti ostacoli e difetti, pur uscendone meglio di tanti altri biopic.
Nel 1952 la protagonista ancora bambina (qui interpretata da Skye Dakota Turner) vive in una bel villino frequentato da artisti e intellettuali, ospiti del suo carismatico padre, il reverendo C. L. Franklin (il bravissimo Forest Whitaker) famoso in tutta Detroit. Già dalla giovane età le sue doti canore sono indiscusse e, cantando alle feste domestiche e in chiesa, sono in molti ad accorgersi del suo precoce talento. Tuttavia, avere a che fare con la severità paterna, soffrendo per la lontananza della madre Barbara (Audra McDonald), tempra nella piccola Aretha un carattere ribelle che presto la porta a commettere una serie di errori.
Una volta grande, Aretha (impersonata dalla cantante Jennifer Hudson), ha già sopportato maltrattamenti e perfino due gravidanze, di cui una addirittura a dodici anni (da imputare a uno dei tanti ospiti di casa). Eppure decide sciaguratamente di legarsi a Ted White (Marlon Wayans), uomo violento e dalla vita poco pulita, del quale però si fida tanto da nominarlo proprio manager. È una scelta che provoca la prima importante frattura con la sua famiglia e che la condurrà nel tunnel dell’alcolismo. Inizia da questo rapporto, che oggi definiremmo “tossico”, la parte più significativa della pellicola che copre l’intera decade degli anni Sessanta per poi concludersi nel 1972. È infatti quello il momento in cui Aretha, dopo aver conosciuto enorme fama e popolarità, ha una sorta di resurrezione spirituale, sfinita dal suo turbolento matrimonio ormai in pezzi, dalle sue dipendenze, dai demoni del suo passato che continuano a tormentarla e dai conflitti familiari che si inaspriscono col passare del tempo. Senza contare il trauma per l’uccisione di Martin Luther King, che lei conosce fin da ragazza, e le lotte inarrestabili da attivista in favore dei diritti delle persone di colore.
Non è un caso, dunque, che la ritrovata serenità passi attraverso la registrazione di “Amazing Grace”: un album “fatto per Dio”, interamente gospel e registrato in una chiesa battista, che nonostante gli iniziali tentennamenti del suo storico produttore Jerry Wexler (Marc Maron), si traduce nel maggior successo mai ottenuto da Aretha Franklin, con oltre due milioni di copie vendute e un doppio disco di platino.
Alla regia di quello che sostanzialmente è anche l’affresco di un’epoca, c’è una regista teatrale, la sudafricana Liesl Tommy, la cui formazione si nota moltissimo nel modo in cui imposta il suo debutto cinematografico. Gli attori si muovono in scenografie attentamente ricostruite, con notevole attenzione all’oggettistica, agli abiti, ai colori. La sceneggiatura di Tracey Scott Wilson (da tempo braccio destro della regista) è articolata e mai frettolosa. Si nota così una costante meticolosità. Questo però ci porta a quello che forse è il difetto principale del film: l’essere straordinariamente prolisso e fin troppo dettagliato. Ci sono numerose scene nelle quali vengono esplorati personaggi o episodi secondari, momenti che possono essere narrati in modo più sintetico e, tutto sommato, anche l’idea di ascoltare quasi per esteso ognuno dei migliori brani di Aretha, non favorisce certo un andamento veloce del racconto.
In operazioni di questo genere non dobbiamo aspettarci di vedere un documentario, ma un prodotto di intrattenimento che si prende alcune libertà creative, come accade – per fare un esempio – quando Aretha ha un lungo dialogo motivazionale con il padre appena prima di incidere “Amazing Grace”. In realtà lui non era neanche presente, perché giunto solo verso la fine delle registrazioni. Proprio a proposito di questa scena dobbiamo dire che c’è un altro fattore che tende ad appesantire Respect: la sensazione di una insistente, furba ricerca della commozione del pubblico, ovvero un inseguimento, a tratti stucchevole, della lacrima facile che scivola verso il melodrammatico.
Con la sua durata decisamente eccessiva, oltre due ore e mezza, nonostante i suoi indubbi meriti realizzativi, la storia della grande Aretha Franklin rischia insomma di far fare qualche sbadiglio anche ai fan più accaniti.
RESPECT
Regia: Liesl Tommy
Sceneggiatura: Tracey Scott Wilson
con Jennifer Hudson, Forest Whitaker, Audra Mcdonald, Mary J. Blige, Marc Maron, Tituss Burgess, Hailey Kilgore, Saycon Sengbloh, Heather Headley, Skye Dakota Turner
Prodotto da: Metro-Goldwyn-Mayer, Bron Studios, Cinesite, Creative Wealth, Media Finance Glickmania
Distribuito da: Eagle Pictures