Giù la maschera, Arlecchino!

Fino al 28 ottobre, in prima nazionale al Carignano di Torino, la commedia goldoniana nella visione moderna e umana di Valerio Binasco

Deponga le maschere la Commedia dell’Arte e sveli l’umano che sotto si cela, con tutte le sue contraddizioni, debolezze, resistenze, passioni. È il monito inviato con chiarezza e discrezione dal nuovo lavoro di Valerio Binasco che al Carignano ha aperto la stagione dello Stabile di Torino con Arlecchino servitore di due padroni (fino al 28 ottobre) di Carlo Goldoni. Non si cerchino rimandi all’opera strehleriana, non si cerchino forzati tentativi di rilettura della Commedia dell’Arte: si accolga piuttosto l’umanità che le maschere custodiscono e che ora, su invito registico, sono chiamate a svelare.

“Arlecchino servitore di due padroni”. Foto Bepi Caroli

Non sono solo l’ambientazione e gli abiti d’epoca moderna (per scene di Guido Ferrato e costumi di Sandra Cardini), né il dinamismo di scenografie – che per certi versi richiamano movimenti ronconiani -, a mettere in risalto il tratto umano dei personaggi. È soprattuto nell’apprezzabile lavoro d’intesa tra regia e recitazione che questa commedia del “primo” Goldoni matura e ci trasporta in un contesto d’immagini e immaginari collocabili nell’Italia tra gli anni Cinquanta e i Settanta, gli anni della Commedia all’italiana, in mezzo a una medio-borghesia in lotta tra ferrei e sessisti valori patriarcali e nuovi impulsi di emancipazione. In questo habitat, Binasco chiede alle maschere di affievolire una certa prepotenza comica, un certo rimarcare – per antiche convenzioni drammaturgiche – di azioni e gag per lasciare spazio a una coralità di personalità complesse. E così la lodevole restituzione interpretativa consente, tra gli altri, a Natalino Balasso di rivelare un Arlecchino “spietato” nel suo essere insieme furbo e stolto, bugiardo e sgarbato, mentre Michele Di Mauro dona a Pantalone una rigida devozione agli affari, alla parola data, al contratto stipulato a qualsiasi costo, fosse anche in gioco la felicità della figlia; Elena Gigliotti porta Clarice prigioniera di scelte altrui sull’orlo di tante crisi nervi; Elisabetta Mazzullo carica di drammaticità affascinante una Beatrice un po’ moderna femminista, un po’ eroina tragica disperata d’amore per il Florindo di Gianmaria Martini (suo complice di delitto) dai tratti ribelli e ostinati.

“Arlecchino servitore di due padroni”. Gianmaria Martini e Elisabetta Mazzullo. Foto Bepi Caroli

Tra equivoci e giocosità ci troviamo di fronte a un intreccio di questioni familiari che alternano slanci d’ironia ad attimi di disperazione e rassegnazione (riportando alla memoria alcuni volti e reazioni del cinema neorealista); ci troviamo di fronte un Arlecchino i cui caratteristici rombi colorati sono direttamente marchiati sulla schiena a suon di frustate; ci troviamo di fronte a servitori – Arlecchino compreso – impegnati nel proprio personale percorso di riscatto economico e sociale. Ci troviamo di fronte a individualità che nel clima sarcastico, ma mai del tutto libero dall’amarezza, sono costrette a competere con la propria condizione, i propri limiti, le proprie necessità. E con la consapevolezza che Arlecchino è il nome d’arte di Pasquale che sulla scena segue i suoi istinti e i suoi obblighi, nel bene e nel male. Un po’ come fanno tutti gli altri personaggi in teatro. Un po’ come facciamo tutti noi nella vita.

 

Arlecchino servitore di due padroni

di Carlo Goldoni

con (in ordine alfabetico) Natalino Balasso, Fabrizio Contri, Marta Cortellazzo Wiel, Michele Di Mauro, Lucio De Francesco, Denis Fasolo, Elena Gigliotti, Gianmaria Martini, Elisabetta Mazzullo, Ivan Zerbinati

regia Valerio Binasco

scene Guido Fiorato
costumi Sandra Cardini
luci Pasquale Mari
musiche Arturo Annecchino
regista assistente Simone Luglio
assistente scene Anna Varaldo
assistente costumi Chiara Lanzillotta
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
con il sostegno di Fondazione CRT