Amira. La cecità incancrenita dell’odio
Mohamed Diab dirige una storia dai contorni noir, in sala dal 20 aprile, e racconta uno spaccato intimo e drammatico del conflitto israelo-palestinese
Nella Palestina occupata la vita non è facile. Sono numerose le famiglie che hanno parenti in prigione, ben guardati dall’esercito di Israele. La diciassettenne Amira (Tara Abboud) si reca con sua madre Warda (Saba Mubarak) in una di queste lugubri strutture carcerarie per andare a trovare il padre, Nawar (Ali Suliman), lì detenuto da prima che lei nascesse. La cosa, che può sembrare impossibile, è potuta invece avvenire grazie a un singolare espediente: molti dei prigionieri riescono infatti a contrabbandare all’esterno un campione del proprio sperma che poi, grazie alla fecondazione assistita, viene impiantato nelle loro donne. In tal modo, i combattenti palestinesi riescono a procreare pur essendo stati rinchiusi, un successo che la popolazione vede come “eroico” e che infatti rende fiera Amira stessa.
Durante il colloquio, Nawar informa sua moglie che esiste l’occasione di ripetere l’azione di contrabbando del seme, così da poter avere un altro figlio. Stranamente, Warda non sembra granché entusiasta all’idea e si convince solo giorni dopo in seguito a insistenze e pressioni, anche da parte della figlia che vede il rifiuto della madre come un affronto al proprio coraggioso e sacrificato padre. I timori di Warda acquistano maggiore chiarezza quando finalmente lo sperma di Nawar viene fatto giungere in clinica, poiché una realtà scandalosa e sconvolgente prende forma sotto gli occhi sgomenti di Amira.
Non vogliamo rovinarvi uno dei momenti salienti del film, naturalmente, ma il mondo dell’adolescente, le sue sicurezze, la sua rete di amicizie, crollano. Il suo fidanzato Ziad (Suhaib Nashwan), che la ama follemente, cerca di farla ragionare senza successo. La ragazza, ormai neanche più certa di ciò che prova per il padre fino ad allora idolatrato, comincia a pensare a un piano, un triste frutto dell’odio che attanaglia la sua terra da decenni.
Nelle sale italiane dal 20 aprile, la storia scritta e girata da Mohamed Diab, che non è palestinese ma egiziano d’origine, è stato presentato in concorso nella Sezione Orizzonti al 78° Festival di Venezia, aggiudicandosi il Premio Interfilm e il Premio Lanterna Magica, per poi vincere il Premio Diritti Umani Amnesty International. È un’opera che colpisce moltissimo lo spettatore e ha una forte valenza provocatoria.
Non a caso, la pellicola ha suscitato violente reazioni politiche in Palestina, tanto che la sua candidatura all’Oscar 2022 per il miglior film straniero è stata ritirata proprio in seguito a dure polemiche. La pratica di contrabbandare sperma all’esterno delle carceri è in atto da appena una decina d’anni, come ricorda anche l’autore durante i titoli di coda, e i bambini nati in questo modo sono già un centinaio.
Questo ovviamente rende implausibile il fatto che Amira, quasi maggiorenne, possa essere una di loro. Ma aldilà dell’inconsistenza dei fatti, che comunque può essere accolta quale “licenza poetica” e ispirazione, a indignare tanto è l’apparente svilimento di quello che viene visto invece come un grosso smacco inflitto ai carcerieri israeliani, una vittoria che, quindi, non va “macchiata”.
Si tratta in realtà di un racconto drammatico, che a tratti diventa un’appassionante vicenda dai contorni gialli, un’indagine che scava tra le pieghe di una società che cerca di modernizzarsi ma che è ancora schiava di pregiudizi, che vittimizza le donne.
È angosciante vedere come un improvvisato tribunale familiare possa impunemente tenere prigioniera Warda, pur di scoprire la verità a tutti i costi, sequestrando persone, conducendo interrogatori illegali. È altrettanto angosciante vedere come il sangue, la discendenza, vengano ancora considerati da qualcuno più importanti della sua personalità, carattere e formazione culturale. Il risentimento ormai incancrenito, atavico, in cui si muovono i personaggi impegnati in una guerra eterna contro “il nemico” li rende ottusi e li getta nel panico. Più volte si fanno vive voci che fanno appello alla ragione, a una più lucida saggezza, ma sono impotenti e isolate di fronte a una situazione che dà l’impressione di essere irrimediabile.
La macchina da presa di Diab, che sa usare interessanti espedienti visivi e narrativi (soprattutto grazie ai volti riflessi in vetri, specchi e perfino occhi), si muove in spazi angusti, resi claustrofobici da una fotografia oscura e oppressiva, permettendoci di spiare i personaggi negli ambienti squallidi in cui vivono.
È un film con un cast convincente, grazie a recitazioni intense, che ci conduce in una terra dilaniata dove chiunque, anche una ragazza felice e circondata di affetti come Amira, può diventare all’improvviso preda e vittima del rancore. E che impone profonde considerazioni non solo sulla situazione palestinese, ma più in generale sulla cecità dell’odio e sui suoi effetti devastanti.
AMIRA
Regia: Mohamed Diab
Sceneggiatura: Mohamed Diab
con Tara Abboud, Saba Mubarak, Ali Suliman, Suhaib Nashwan
Produzione: Film Clinic Productions, Acamedia Pictures, Arab Media Network
Distribuito da: Cineclub Internazionale Distribuzione